Il racconto di Eva e Francesca | "From Migration to Integration" Erasmus+ Training Course a Bihac, Bosnia e Erzegovina - 27/08-05/09/2021
“Giocare con la vita o vivere per giocare? Storie dal confine bosniaco-croato”
Di Eva Menichetti
Foto di Francesca Orsi
È difficile-anche a distanza di mesi- riordinare la complessità del vissuto delle persone che ho incontrato e dei luoghi che ho percorso durante il Training Course “From Migration to Integration” a Bihac, Bosnia ed Erzegovina, al quale ho partecipato grazie all’associazione Beyond Borders.
Bihac è una cittadina al confine tra Bosnia e Croazia bagnata dal fiume Una, chiamato così dai romani che, quando arrivarono, rimasero colpiti dalla sua unica bellezza. Prima della guerra, che l’ha devastata, Bihac era una città benestante, snodo di commerci fruttuosi e sede di molte fabbriche tessili. Le ferite indelebili della guerra sono visibili ancora sulle pareti delle case, forate dagli spari delle granate, ma soprattutto nelle vite delle persone che hanno cominciato ad emigrare. Il conflitto ha anche colpito duramente l’economia, in particolare quella del cantone Una-Sana che è oggi uno dei cantoni più poveri. Per non parlare della frammentazione politica del paese, volta a garantire il mantenimento di buoni rapporti di convivenza tra le etnie musulmana (bosgnacca) e croata cattolica.
La vita però continua a scorrere a Bihac, come scorre il fiume, testimone di guerre e morti ed oggi di altrettante storie e sofferenze di migranti che vede passare spesso a piedi scalzi, stanchi dopo kilometri per le strade del mondo. Spesso tornano a Bihac perché respinti e picchiati alla frontiera dalla polizia croata, che cerca di privarli dei loro sogni e dei loro beni, spogliandoli dei loro vestiti e soprattutto dei loro diritti. Ed è proprio nelle acque del fiume Una che molti migranti ritrovano il refrigerio e anche un momento di spensieratezza, tra tuffi e un po’ di sole-almeno in estate- con i loro compagni di viaggio.
Anche io sono stata testimone di storie, parole, sguardi di persone che incontravo ogni giorno per strada e come tale mi sento in dovere di cercare di raccontarle, tramandarle, oltre quella frontiera che alcuni di loro non riusciranno purtroppo mai ad attraversare.
Il racconto diventa allora un dovere civico, un primo passo per sentirsi cittadini attivi e consapevoli, che è uno degli obiettivi primari dei progetti Erasmus plus, nonostante le tante emozioni che offuscano i ricordi, quasi a volerli dimenticare, perché anch’io mi sento complice di un sistema ed una politica che non riescono a trovare delle soluzioni che mettano al centro proprio quelle storie, quei vissuti delle persone, con i loro sogni e bisogni.
Per tale motivo, in questo articolo non parlerò di numeri- che si possono trovare sul web e alcuni dei quali cercherò di suggerire in calce- ma piuttosto di persone, con le loro parole, le loro storie e il loro coraggio di sorridere nonostante tutto.
Riportare le loro storie e le mie emozioni è il minimo quindi che io possa fare per combattere quel senso di impotenza che tuttora mi opprime quando ritorno con i ricordi, proprio lì, nel campo di Lipa, che sono andata a visitare durante il training.
Davanti all’entrata del campo, aspettando il mio turno per entrare, mi sono trovata di fronte ad un gruppo di Pakistani, tutti più o meno della mia età che mi hanno chiesto perché la polizia croata li aveva respinti con violenza alla frontiera. E alla loro domanda io non ho saputo rispondere, perché una risposta non c’è.
E allora ho cercato di raccontare del training, anche se è difficile spiegare come l’Unione Europa voglia sensibilizzare i giovani sulla questione migratoria, quando, nel frattempo resta inerte davanti alle molteplici violazioni di diritti umani lungo le varie frontiere che continuano a dividere l’Europa.
Il campo di Lipa è tristemente famoso per il grande incendio che l’ha distrutto il 23 dicembre del 2020, lasciando centinaia di persone in mezzo alla neve.
Lipa è un campo che si trova in un vasto altipiano isolato, volutamente fuori dai centri abitati e vicino al bellissimo parco nazionale, dove si possono ammirare le cascate più maestose e conosciute della Bosnia. Sembra una contraddizione, e lo è.
La stessa natura amena, che d’estate diletta turisti e visitatori, ostacola e rende ancora più difficile- soprattutto d’inverno- il percorso dei migranti tra i boschi e le montagne impervie per raggiungere la frontiera croata, dalla quale spesso sono costretti a tornare indietro, respinti violentemente dalla polizia.
Oggi Lipa è gestito dal servizio affari esteri bosniaco e accoglie esclusivamente uomini. Tra le poche ONG che possono accedere, notiamo con piacere una ONG italiana, Ipsia-Acli che, grazie ad un progetto con Caritas Italiana, è riuscita, fino ad ora, a garantire qualche servizio aggiuntivo ai migranti che alloggiano nel campo. Purtroppo non ho avuto modo di parlare con qualche operatore italiano- La vista al campo è stata molto frettolosa, guidata da una funzionaria del governo bosniaco, che sembrava molto indaffarata per un controllo che ci sarebbe stato quel giorno da parte del Ministero. È stato ripetuto più volte di non scattare foto e per alcuni scatti che sono stati fatti fuori dal campo, gli operatori hanno minacciato di chiamare la polizia.
Ma quello che mi è rimasto e rimarrà per sempre tra i miei ricordi, come tante fotografie raccolte nell’album della mia memoria, sono i sorrisi delle persone, che nonostante tutto, nella disumanità di un luogo dove il tempo sembra essersi fermato, in un limbo tra violazioni e speranze, mi hanno accolta, offrendomi il cibo nella loro cucina di campo.
Non dimenticherò mai neanche l’uomo che si è avvicinato, dicendo che vorrebbe raggiungere l’Italia e cantando una canzone rap nella sua lingua. Molti ragazzi mi hanno salutata, sorridendomi, facendo capolino dalle tende dove dormono, in letti a castello. Nelle tristezza e nel degrado, che ancora, purtroppo, caratterizza il campo, si respira un’aria di apparente serenità, mista a quel profumo di chapati abbrustolito e delle patate speziate. Mi colpiscono anche, all’entrata delle tende, dei curiosi cartelli che vietano di portare coltelli o fare risse.
Molti di loro, salutandomi, dicono “Italia” e capisco che è la destinazione del loro migrare e io mi limito a rispondere “you are welcome”, cercando di ricambiare i loro sorrisi.
Ma è proprio in quel momento, che ci si sente catapultati, in un attimo, dall’altra parte della frontiera, dalla parte dei “più fortunati”- perché così ci vedono i loro occhi- anche se, in fondo, io mi sono sentita solo dalla parte dei responsabili delle ingiustizie, delle violazioni, dei privilegiati che hanno la fortuna di vedere garantito il diritto di migrare, grazie a dei documenti che permettono di attraversare legalmente ogni frontiera in Europa.
Un altro campo che ho visitato è quello di Borici, un ex studentato diventato un centro temporaneo di accoglienza gestito dall’OIM, che ospita solamente famiglie con bambini e minori non accompagnati. Ho avuto modo di parlare con vari organizzazioni internazionali, come Save the Children, UNHCR, UNICEF.
Quello che porto con me e che vi vorrei raccontare, però, è la storia di Amir (nome di fantasia), un ragazzo minorenne dal Pakistan che trovo all’entrata del campo. Mi saluta con un sorriso e mi racconta che anche lui aveva provato ad attraversare la frontiera ma che era stato brutalmente respinto dalla polizia croata. Non mi dà neanche il tempo di rispondere e mi saluta frettolosamente perché doveva andare dal dottore per farsi curare le ferite al braccio causate dalle percosse della polizia.
Sembra la storia di un altro ragazzo che abbiamo incontrato, insieme ad altri partecipanti al training, una sera tra le strade del centro di Bihac. Lo vediamo lì, seduto davanti al supermercato più grande, dove in genere sostano molti migranti, che si preparano per attraversare la frontiera. Ci racconta che ha solo 17 anni ed è arrivato in Bosnia dal Pakistan a piedi, dopo 9 mesi di cammino. Il suo sogno è arrivare in Italia, ma ha tentato per ben 27 volte l’attraversamento della frontiera croata, quello che lui, come tanti altri migranti, chiamano “the game”. Un gioco in cui molti perdono la vita, vedono calpestati i loro diritti, dopo aver calpestato le strade del mondo per vederli garantiti.
Ci dice anche che non sapeva dove andare a dormire ma che sarebbe partito la mattina dopo per tentare di nuovo questo gioco perverso. Ricordo ancora la stanchezza delle sue parole e allo stesso tempo la forza che ci ha trasmesso.
La forza e la speranza di credere che al di là della frontiera ci possa essere un mondo migliore.
Il gioco, anche nella nostra società - al di là della frontiera- sta tristemente acquisendo una sfumatura perversa ed alienante. Al momento, infatti, tra i giovani si parla di “effetto squid game”, a seguito di una serie tv che vede coinvolti un gruppo di persone in un gioco mortale: i partecipanti si sfidano in giochi notoriamente per bambini, dove chi perde muore, mentre in palio ci sono milioni di euro. Alcuni giovani hanno iniziato ad emulare i giochi della serie tv, usando la violenza contro chi perde.
Uno degli obiettivi del training era richiamare, invece, l’idea di gioco e sport nell’accezione positiva e di inclusione. Insieme agli altri partecipanti, abbiamo quindi creato un manuale con dei giochi di squadra per minori e giovani, ospiti dei centri di accoglienza, perché riuscissero a vedere un “game” che non fosse solo quel gioco drammatico che è l’attraversamento della frontiera ma qualcosa che distruggesse ogni frontiera e che andasse oltre le barriere linguistiche e culturali. Avremmo dovuto realizzare i giochi all’interno dei campi visitati, ma per problemi logistici e legati alla pandemia non abbiamo ottenuto l’autorizzazione per farlo.
Ci sarebbe tanto altro da scrivere e da raccontare, ma voglio concludere con delle foto, scattate dall’attento e sensibile occhio di Francesca Orsi, la mia instancabile compagna di training, di avventure e di utopie. Queste foto ritraggono le persone, migranti e bosniache, che abbiamo incontrato per le strade di Bihac. I loro volti, la loro gentilezza ci hanno particolarmente colpite e vorremo che fossero un simbolo di speranza, una breccia in ogni frontiera del mondo, da cui poter costruire non muri ma un mondo migliore, fatto da persone migliori che riconsiderino l’importanza di vivere insieme, valorizzando la ricchezza della diversità.
Abbiamo voluto includere anche le nostre foto per mostrare l’immagine di un’Unione Europea che crede ancora nella solidarietà tra i popoli, come rappresenta la sua bandiera. Il progetto ha unito infatti giovani youth workers provenienti da vari paesi di Europa che hanno messo insieme esperienze e sogni per approfondire storie di persone- migranti e non- accomunate dalla speranza di vivere in un mondo migliore.
Perché, alla fine, come dice una canzone bellissima- che vi consiglio come colonna sonora per la lettura di questo articolo- siamo tutti figli del Mar Mediterraneo, il mare tra le terre, figli “di terre abbracciate dal mare. Le unisce la storia, la tradizione, cultura, memoria, musica e parole”(Crifiu, Rock e Rai).
Fonti per approfondimenti:
International Organization for Migration, Bosnia and Herzegovina, https://bih.iom.int/
Redazione community, Rossella Marvulli, Uomini-fantasma smascherati: respingimenti al confine croato-bosniaco, pubblicato da Progetto Melting Pot Europa, https://www.meltingpot.org/Uomini-fantasma-smascherati-respingimenti-al-confine-croato.html#.YXpwn9ZBxQJ
Reliefweb,, Bosnia nd Herzegovina, Last updates, https://reliefweb.int/country/bih
Respingimenti illegali e violenza alle frontiere. Regione balcanica, giugno 2021, Border Violence Monitoring Network (BVMN), pubblicato da Progetto Melting Pot Europa, https://www.meltingpot.org/Respingimenti-illegali-e-violenza-alle-frontiere-Regione-26404.html#.YXpZ9dZBxQJ
Un gioco è bello quando dura poco. Report dal confine bosniaco-croato, A cura del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicenti, https://www.meltingpot.org/Un-gioco-e-bello-quando-dura-poco-Report-dal-confine.html#.YXpZ7NZBxQJ
Per ulteriori approfondimenti, consultare la pagina https://www.meltingpot.org/+-Bosnia-ed-Erzegovina-+.html
La vita però continua a scorrere a Bihac, come scorre il fiume, testimone di guerre e morti ed oggi di altrettante storie e sofferenze di migranti che vede passare spesso a piedi scalzi, stanchi dopo kilometri per le strade del mondo. Spesso tornano a Bihac perché respinti e picchiati alla frontiera dalla polizia croata, che cerca di privarli dei loro sogni e dei loro beni, spogliandoli dei loro vestiti e soprattutto dei loro diritti. Ed è proprio nelle acque del fiume Una che molti migranti ritrovano il refrigerio e anche un momento di spensieratezza, tra tuffi e un po’ di sole-almeno in estate- con i loro compagni di viaggio.
Anche io sono stata testimone di storie, parole, sguardi di persone che incontravo ogni giorno per strada e come tale mi sento in dovere di cercare di raccontarle, tramandarle, oltre quella frontiera che alcuni di loro non riusciranno purtroppo mai ad attraversare.
Il racconto diventa allora un dovere civico, un primo passo per sentirsi cittadini attivi e consapevoli, che è uno degli obiettivi primari dei progetti Erasmus plus, nonostante le tante emozioni che offuscano i ricordi, quasi a volerli dimenticare, perché anch’io mi sento complice di un sistema ed una politica che non riescono a trovare delle soluzioni che mettano al centro proprio quelle storie, quei vissuti delle persone, con i loro sogni e bisogni.
Per tale motivo, in questo articolo non parlerò di numeri- che si possono trovare sul web e alcuni dei quali cercherò di suggerire in calce- ma piuttosto di persone, con le loro parole, le loro storie e il loro coraggio di sorridere nonostante tutto.
Riportare le loro storie e le mie emozioni è il minimo quindi che io possa fare per combattere quel senso di impotenza che tuttora mi opprime quando ritorno con i ricordi, proprio lì, nel campo di Lipa, che sono andata a visitare durante il training.
Davanti all’entrata del campo, aspettando il mio turno per entrare, mi sono trovata di fronte ad un gruppo di Pakistani, tutti più o meno della mia età che mi hanno chiesto perché la polizia croata li aveva respinti con violenza alla frontiera. E alla loro domanda io non ho saputo rispondere, perché una risposta non c’è.
E allora ho cercato di raccontare del training, anche se è difficile spiegare come l’Unione Europa voglia sensibilizzare i giovani sulla questione migratoria, quando, nel frattempo resta inerte davanti alle molteplici violazioni di diritti umani lungo le varie frontiere che continuano a dividere l’Europa.
Il campo di Lipa è tristemente famoso per il grande incendio che l’ha distrutto il 23 dicembre del 2020, lasciando centinaia di persone in mezzo alla neve.
Lipa è un campo che si trova in un vasto altipiano isolato, volutamente fuori dai centri abitati e vicino al bellissimo parco nazionale, dove si possono ammirare le cascate più maestose e conosciute della Bosnia. Sembra una contraddizione, e lo è.
La stessa natura amena, che d’estate diletta turisti e visitatori, ostacola e rende ancora più difficile- soprattutto d’inverno- il percorso dei migranti tra i boschi e le montagne impervie per raggiungere la frontiera croata, dalla quale spesso sono costretti a tornare indietro, respinti violentemente dalla polizia.
Oggi Lipa è gestito dal servizio affari esteri bosniaco e accoglie esclusivamente uomini. Tra le poche ONG che possono accedere, notiamo con piacere una ONG italiana, Ipsia-Acli che, grazie ad un progetto con Caritas Italiana, è riuscita, fino ad ora, a garantire qualche servizio aggiuntivo ai migranti che alloggiano nel campo. Purtroppo non ho avuto modo di parlare con qualche operatore italiano- La vista al campo è stata molto frettolosa, guidata da una funzionaria del governo bosniaco, che sembrava molto indaffarata per un controllo che ci sarebbe stato quel giorno da parte del Ministero. È stato ripetuto più volte di non scattare foto e per alcuni scatti che sono stati fatti fuori dal campo, gli operatori hanno minacciato di chiamare la polizia.
Ma quello che mi è rimasto e rimarrà per sempre tra i miei ricordi, come tante fotografie raccolte nell’album della mia memoria, sono i sorrisi delle persone, che nonostante tutto, nella disumanità di un luogo dove il tempo sembra essersi fermato, in un limbo tra violazioni e speranze, mi hanno accolta, offrendomi il cibo nella loro cucina di campo.
Non dimenticherò mai neanche l’uomo che si è avvicinato, dicendo che vorrebbe raggiungere l’Italia e cantando una canzone rap nella sua lingua. Molti ragazzi mi hanno salutata, sorridendomi, facendo capolino dalle tende dove dormono, in letti a castello. Nelle tristezza e nel degrado, che ancora, purtroppo, caratterizza il campo, si respira un’aria di apparente serenità, mista a quel profumo di chapati abbrustolito e delle patate speziate. Mi colpiscono anche, all’entrata delle tende, dei curiosi cartelli che vietano di portare coltelli o fare risse.
Molti di loro, salutandomi, dicono “Italia” e capisco che è la destinazione del loro migrare e io mi limito a rispondere “you are welcome”, cercando di ricambiare i loro sorrisi.
Ma è proprio in quel momento, che ci si sente catapultati, in un attimo, dall’altra parte della frontiera, dalla parte dei “più fortunati”- perché così ci vedono i loro occhi- anche se, in fondo, io mi sono sentita solo dalla parte dei responsabili delle ingiustizie, delle violazioni, dei privilegiati che hanno la fortuna di vedere garantito il diritto di migrare, grazie a dei documenti che permettono di attraversare legalmente ogni frontiera in Europa.
Un altro campo che ho visitato è quello di Borici, un ex studentato diventato un centro temporaneo di accoglienza gestito dall’OIM, che ospita solamente famiglie con bambini e minori non accompagnati. Ho avuto modo di parlare con vari organizzazioni internazionali, come Save the Children, UNHCR, UNICEF.
Quello che porto con me e che vi vorrei raccontare, però, è la storia di Amir (nome di fantasia), un ragazzo minorenne dal Pakistan che trovo all’entrata del campo. Mi saluta con un sorriso e mi racconta che anche lui aveva provato ad attraversare la frontiera ma che era stato brutalmente respinto dalla polizia croata. Non mi dà neanche il tempo di rispondere e mi saluta frettolosamente perché doveva andare dal dottore per farsi curare le ferite al braccio causate dalle percosse della polizia.
Sembra la storia di un altro ragazzo che abbiamo incontrato, insieme ad altri partecipanti al training, una sera tra le strade del centro di Bihac. Lo vediamo lì, seduto davanti al supermercato più grande, dove in genere sostano molti migranti, che si preparano per attraversare la frontiera. Ci racconta che ha solo 17 anni ed è arrivato in Bosnia dal Pakistan a piedi, dopo 9 mesi di cammino. Il suo sogno è arrivare in Italia, ma ha tentato per ben 27 volte l’attraversamento della frontiera croata, quello che lui, come tanti altri migranti, chiamano “the game”. Un gioco in cui molti perdono la vita, vedono calpestati i loro diritti, dopo aver calpestato le strade del mondo per vederli garantiti.
Ci dice anche che non sapeva dove andare a dormire ma che sarebbe partito la mattina dopo per tentare di nuovo questo gioco perverso. Ricordo ancora la stanchezza delle sue parole e allo stesso tempo la forza che ci ha trasmesso.
La forza e la speranza di credere che al di là della frontiera ci possa essere un mondo migliore.
Il gioco, anche nella nostra società - al di là della frontiera- sta tristemente acquisendo una sfumatura perversa ed alienante. Al momento, infatti, tra i giovani si parla di “effetto squid game”, a seguito di una serie tv che vede coinvolti un gruppo di persone in un gioco mortale: i partecipanti si sfidano in giochi notoriamente per bambini, dove chi perde muore, mentre in palio ci sono milioni di euro. Alcuni giovani hanno iniziato ad emulare i giochi della serie tv, usando la violenza contro chi perde.
Uno degli obiettivi del training era richiamare, invece, l’idea di gioco e sport nell’accezione positiva e di inclusione. Insieme agli altri partecipanti, abbiamo quindi creato un manuale con dei giochi di squadra per minori e giovani, ospiti dei centri di accoglienza, perché riuscissero a vedere un “game” che non fosse solo quel gioco drammatico che è l’attraversamento della frontiera ma qualcosa che distruggesse ogni frontiera e che andasse oltre le barriere linguistiche e culturali. Avremmo dovuto realizzare i giochi all’interno dei campi visitati, ma per problemi logistici e legati alla pandemia non abbiamo ottenuto l’autorizzazione per farlo.
Ci sarebbe tanto altro da scrivere e da raccontare, ma voglio concludere con delle foto, scattate dall’attento e sensibile occhio di Francesca Orsi, la mia instancabile compagna di training, di avventure e di utopie. Queste foto ritraggono le persone, migranti e bosniache, che abbiamo incontrato per le strade di Bihac. I loro volti, la loro gentilezza ci hanno particolarmente colpite e vorremo che fossero un simbolo di speranza, una breccia in ogni frontiera del mondo, da cui poter costruire non muri ma un mondo migliore, fatto da persone migliori che riconsiderino l’importanza di vivere insieme, valorizzando la ricchezza della diversità.
Abbiamo voluto includere anche le nostre foto per mostrare l’immagine di un’Unione Europea che crede ancora nella solidarietà tra i popoli, come rappresenta la sua bandiera. Il progetto ha unito infatti giovani youth workers provenienti da vari paesi di Europa che hanno messo insieme esperienze e sogni per approfondire storie di persone- migranti e non- accomunate dalla speranza di vivere in un mondo migliore.
Perché, alla fine, come dice una canzone bellissima- che vi consiglio come colonna sonora per la lettura di questo articolo- siamo tutti figli del Mar Mediterraneo, il mare tra le terre, figli “di terre abbracciate dal mare. Le unisce la storia, la tradizione, cultura, memoria, musica e parole”(Crifiu, Rock e Rai).
Fonti per approfondimenti:
International Organization for Migration, Bosnia and Herzegovina, https://bih.iom.int/
Redazione community, Rossella Marvulli, Uomini-fantasma smascherati: respingimenti al confine croato-bosniaco, pubblicato da Progetto Melting Pot Europa, https://www.meltingpot.org/Uomini-fantasma-smascherati-respingimenti-al-confine-croato.html#.YXpwn9ZBxQJ
Reliefweb,, Bosnia nd Herzegovina, Last updates, https://reliefweb.int/country/bih
Respingimenti illegali e violenza alle frontiere. Regione balcanica, giugno 2021, Border Violence Monitoring Network (BVMN), pubblicato da Progetto Melting Pot Europa, https://www.meltingpot.org/Respingimenti-illegali-e-violenza-alle-frontiere-Regione-26404.html#.YXpZ9dZBxQJ
Un gioco è bello quando dura poco. Report dal confine bosniaco-croato, A cura del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicenti, https://www.meltingpot.org/Un-gioco-e-bello-quando-dura-poco-Report-dal-confine.html#.YXpZ7NZBxQJ
Per ulteriori approfondimenti, consultare la pagina https://www.meltingpot.org/+-Bosnia-ed-Erzegovina-+.html