Viaggiatori in Pantofole - Il racconto di Nicla

In questo periodo in cui abbiamo imparato a memoria quanti passi ci vogliono per andare dalla camera da letto al divano, personalmente ogni tanto mi ritrovo a rivedere delle vecchie foto. Sono foto di viaggi di studio, di vacanza, di scambi interculturali. I miei viaggi sono sempre accompagnati da racconti, a volte in forma di diario personale, a volte in terza persona. La protagonista è quasi sempre una ragazza, alle prese con il suo viaggio, la scoperta di nuovi luoghi e i suoi sentimenti. Questo è un racconto scritto appena dopo il mio Erasmus a Parigi. Rileggerlo è un momento di evasione che volevo condividere.

Quella mattina Nadia si svegliò, diversa dalle altre volte. Era nella città che sognava da sempre, ce l’aveva nel sangue, in ogni fibra del suo corpo. Da sempre. Era partita per andare a studiare lì, con leggero disappunto della famiglia. Nadia però aveva la testa dura, come le Murge alle quali apparteneva. Era approdata a Parigi una mattina di Gennaio. Il freddo la pungeva senza pietà. Era partita senza avere un posto dove alloggiare perché non si fidava degli annunci in rete. Lei doveva vedere, toccare, ascoltare il posto dove avrebbe vissuto. Aveva deciso di andar via, non perché non amasse il suo paese, i suoi colori, le sue forme, gli odori che sprigionava, ma per la gente che le stava stretta. Prima di Parigi si era già trasferita in una città universitaria avvertendo il cambiamento dal suo paese.
Nadia e le città. Un rapporto complicato. O semplice. Dipende dai punti di vista. Era abituata al paese, veniva dalla provincia lei. Profonda Nadia, lì dove va assapora le cose genuine che il luogo offre, cercando di capire a pieno quali siano le sue peculiarità. Curiosa Nadia, ovunque va, vede, cammina, parla. Le piace visitare il lato che la città cela, non frequentato dai turisti. Si lascia pervadere da tutto quello che la città offre, fino a diventarne parte integrante. Ama scoprire la città.
Parigi le aveva fatto un effetto strano. Si era sviluppata in lei come un cancro, una malattia di cui vorresti liberarti. Ci provi in tutti i modi, ma è difficile. A volte credi di farcela, ma poi si ripresenta, magari peggio di prima e sei spacciata. Lei soffriva di questa malattia. Adorava passeggiare per le strade degli arrondissements che non conosceva, vedere come da un quartiere all’altro la gente, le case, le strade cambiavano. Si inabissava in quelle vie, un abîme che non l’avrebbe più lasciata. Vagava mentre cercava un posto dove vivere, chiedendosi se esistesse lì, in quella città che voleva sentire sua a tutti i costi, un posto per lei. Se lo chiedeva mentre sorvolava nella metro il 10° arrondissement, tra le fermate Jaurés e Barbès-Rochechouart. Finalmente in quella zona poi, aveva trovato un angolino al sesto piano di un vecchio bâtiment haussmannien; lei sa quanto le era costato, in energie, fatiche, prima di dire: “Eccola! È lei! È questa la mia stanza, è questo il mio posto!”. La sua era la zona indiana, colma di ristoranti pieni di prelibatezze di questa terra così lontana. Nel quartiere si parlava prima l’hindi, poi il francese. I negozi con i loro abiti, colorati e sgargianti ma comodi, belli. La loro musica, la loro religione. A volte si dimenticava di essere nella ville lumière. Era questo che le piaceva. Melting pot di culture, di lingue, di gente. Aveva conquistato il suo angolino di Parigi. Ce l’aveva fatta. Si sentiva così leggera quando camminava per le strade. Si sentiva così bene quando sorseggiava vino comprato nell’enoteca che lei adorava più di tutte, con i suoi nuovi amici sul canal Saint Martin. Ogni giorno per lei diventava una scoperta. Non vedeva l’ora di alzarsi, vestirsi, affacciarsi dal suo minuscolo balcone per salutare la Basilica du Sacré-Cœur e scendere giù in strada, dove la gente vive, per ascoltare in un’altra lingua, in altre lingue, la vita che scorre, con lei accanto, con lei dentro, così libera di esprimersi. Aveva sentito dire che la città basta ascoltarla, perché è il riflesso di tante storie. Ci credeva. Le avevano detto che lì sembrava disegnata. Dapprima ne rise, poi riflettendoci pensò fosse vero.
Per questo Nadia quella mattina si svegliò diversa. Così come si svegliò la mattina successiva ancora, diversa. E quella dopo ancora e ancora. Quanto sarebbe durato? Non lo sapeva ma non ci pensava, non le importava. Lei viveva, lasciandosi divorare da quella città che la aveva accolta, dove si era creata un piccolo spazio che non avrebbe abbandonato mai.

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